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L'augurio del vescovo Urso a Ragusa: "Apriamo i cuori alla speranza"

Alla fine del messaggio un pensiero ai sette seminaristi che «vivono insieme per stare con Gesù e lasciarsi conformare a Gesù buon pastore»

RAGUSA. Un augurio di speranza. È quello che il vescovo, Paolo Urso, rivolge a tutti in occasione del Natale. «In questo periodo - scrive il presule nel messaggio natalizio -, il mio sincero augurio potrebbe sembrare una espressione di insensibilità o suonare addirittura come offesa alla sofferenza e al dolore di tante persone. Come si può dire "buon Natale" a chi ha perso il lavoro e non riesce ad averlo, a chi sperimenta la solitudine dell'abbandono e si sente emarginato, a chi è segnato dalla malattia e non vede possibilità di guarigione, a chi fugge dal proprio Paese e subisce violenza, a chi è disperato e non avverte solidarietà, a chi piange l'assurda prematura morte di persone care e non trova pace. Invece, è proprio in queste situazioni che si scopre il bisogno di augurarci buon Natale, che non è una espressione vagamente consolatoria. È l'annuncio della venuta e della presenza di Colui che, solo, può ridare la speranza, curare le ferite, rasserenare il cuore, donare la pace». E aggiunge: «Abbiamo bisogno di sperare, soprattutto in tempi drammatici».

Cita poi una storiella ebraica, sintetizzata così dal cardinale Ravasi: «In una stanza silenziosa c'erano quattro candele accese. La prima si lamentava: Io sono la pace. Ma gli uomini preferiscono la guerra: non mi resta che lasciarmi spegnere. E così accadde. La seconda disse: Io sono la fede. Ma gli uomini preferiscono le favole: non mi resta che lasciarmi spegnere. E così accadde. La terza candela confessò: Io sono l'amore. Ma gli uomini sono cattivi e incapaci di amare: non mi resta che lasciarmi spegnere. All'improvviso nella stanza comparve un bambino che, piangendo, disse: Ho paura del buio. Allora la quarta candela disse: Non piangere. Io resterò accesa e ti permetterò di riaccendere con la mia luce le altre candele: io sono la speranza».

Il messaggio prosegue: «Il Bambino che nasce a Betlemme, in una condizione che noi oggi definiremmo disperata non è il bambino che ha paura del buio, è Colui che dona speranza. La sua nascita dice al mondo intero che Dio si prende cura di ogni persona, di tutti gli uomini e di tutte le donne… L'amore di Dio, che si manifesta nel natale di Gesù, ci dona la certezza che non sbagliamo a sperare in un mondo più giusto e fraterno… Quel Bambino ci libera dalla paura, dalla solitudine, dal dolore, dalla disperazione. Egli è il Salvatore. Convinto di questa verità, lo scrittore e poeta russo Boris Pasternak, nel suo celebre e unico romanzo Il dottor Zivago, fa dire a Nikolai Nikolaevic che dopo Cristo l'uomo non muore più per strada. Morire per strada è una immagine. Dice la solitudine e la disperazione che avvolge la vita umana e la società quando Dio è messo fuori».

Cita poi De Andrè. «Quello che Fabrizio De André invocava “Dio del cielo se mi vorrai amare scendi dalle stelle e vienimi a cercare”, è ciò che noi celebriamo a Natale. Un Dio che ci ama e viene a cercarci, facendosi uomo! L'esperienza di tante persone ci dà la conferma che senza di “te non so più dove andare, come una mosca cieca che non sa più volare”. E, purtroppo, “se ci hai regalato il pianto e il riso noi qui sulla terra non lo abbiamo diviso”. E De André conclude: “Dio del cielo ti aspetterò, nel cielo e sulla terra ti cercherò”. Anche noi lo aspettiamo (siamo gente che aspetta!), lo cerchiamo e siamo certi che egli viene per salvarci e riaccendere o consolidare la speranza».
Alla fine del messaggio un pensiero per il seminario, dove sette giovani (Fabio, Filippo, Francesco, Giovanni, Giuseppe, Sebastiano e Vincenzo) «vivono insieme per stare con Gesù, riflettere sul senso della loro chiamata e, sotto la guida dello Spirito santo e dei superiori, lasciarsi conformare a Gesù buon pastore».

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