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Ragusa, vittime del long Covid: «La nostra eterna battaglia con gli strascichi del virus»

«Ora parlo molto, mi deve perdonare, ma quando ho avuto il Covid, mi salivano certi nervi! Volevo parlare ma non mi venivano le parole, mi bloccavo, come se avessi i pensieri annebbiati». Nicoletta Genovese, imprenditrice, gestisce dei supermercati e di dipendenti ne ha poco meno di 60: è una dei 108 pazienti che cercano di «tornare alla vita». Assistiti gratuitamente grazie alla Samot di Ragusa e al contributo del fondo di beneficenza di Intesa San Paolo nel progetto «Back to life», erano precipitati nel long Covid, subendo quello che in termini medici è definito «decondizionamento generale e muscolare in seguito a infezione da Sars Cov2».

«Non ero ancora vaccinata - racconta Nicoletta all’Agi -, era maggio dello scorso anno, quando si stava aprendo la finestra per le vaccinazioni della mia età, ho 55 anni. Ma sono stata contagiata: io, sette miei dipendenti e la mia famiglia. Non volevo andare in ospedale, sono nonna da poco. Sono stata ad un passo dalla terapia intensiva».

Vincenza Tranchina, 64 anni ancora ha qualche strascico, non parla al telefono ma affida a sua figlia Rossella il racconto del suo incubo. La signora Vincenza è stata travolta dal Covid con una polmonite interstiziale con embolie. «Un male subdolo perché asintomatica nel primo periodo. Era sotto controllo, curata per quella che appariva come una bronchite. Due tamponi negativi. Poi la polmonite, non aveva più fiato, la corsa in ospedale e mio padre che la deve lasciare sulla porta. - si commuove Rossella -. Avevamo paura di non rivederla più». Era gennaio, uscirà dall’ospedale dopo 60 giorni. Incapace di muoversi, allettata e con l’ossigeno ad aiutarla. «È stata una esperienza incredibile, terribile e umanamente bellissima. Tremenda per la paura che abbiamo avuto tutti, bellissima per le persone che abbiamo incontrato, dall’ospedale a casa. Non era vaccinata, non abbiamo fatto in tempo, il Covid è arrivato prima. Ginnastica e movimento: le hanno insegnato a respirare nuovamente, a riprendere il controllo della muscolatura, della sua vita. E anche l’assistenza psicologica è stata importante; la paura e qualche segnale di depressione, da superare. Fino a settembre l’accompagnava la bombola di ossigeno - conclude Rossella, figlia di Vincenza -. Ora un anticoagulante e terapie per la fibrosi, strascico di quanto avuto. Se devo essere sincera, sì, sapevamo di quanto brutto fosse il Covid ma non ci aspettavamo nulla di tutto quanto abbiamo passato».

«Molte delle persone che abbiamo assistito, e che hanno attraversato l’esperienza della prima fase acuta della malattia - spiega all’Agi Flavio Cirillo, fisioterapista - avevano non soltanto il bisogno di ritrovare il contatto con il mondo esterno ma anche l’abitudine del quotidiano perché la loro vita è cambiata non soltanto dal punto di vista fisico motorio, respiratorio, ma anche psicologico. Il primo impatto è stato quello della paura del ritorno a casa accompagnata dalla preoccupazione dettata dalla condizioni fisiche non più ottimali, di non riuscire a fare quello che facevano in precedenza. Per alcuni era arduo anche affrontare un’uscita per andare a fare la spesa, o salire una rampa di scale. Ci siamo trovati davanti a persone che oltre al danno fisico, non riuscivano a trovare la motivazione per andare avanti, sopravvissute ad un loro caro, degente nel letto accanto ma che non ce l’ha fatta. Una componente psicologica forte e un carico emotivo non da poco, anche per noi operatori».

Anche Davide La Terra ricorda un paziente: «Ha visto un amico a cui era attaccato come ad un padre, morire nel letto accanto: smarrimento, dolore, paura di non farcela, di cadere nello stesso percorso, lontano da tutti e senza conforto, il terrore di non rivedere cari e famiglia».

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