Le scacce ragusane sono uno dei tanti esempi in cui risplende in tutta la sua ricchezza e varietà il cibo siciliano. «Baroque to eat», lo ha chiamato tanti anni fa un amico americano in visita, e non ho più dimenticato questa azzeccata espressione. Dal barocco da mangiare al barocco vero e proprio il passo è breve, e magnifica fu la ricostruzione dopo il terremoto che nel 1693 distrusse le città della Sicilia sudorientale. Fra queste Scicli: dalle prime incerte tracce preistoriche, la città si è evoluta fino agli attuali 27.000 abitanti e possiede testimonianze tardo-medievali e rinascimentali, barocche e rococò.
Provenendo da Modica, dopo una curva appare all’improvviso Scicli in tutta la sua estensione, dominata da tre colli e tagliata da altrettanti canyons (cave). In centro spicca il colle con l’ex matrice di San Matteo, che a quanto pare coincide con il primo nucleo stabilmente abitato in età bizantina. Costruita nel Settecento accanto al vecchio Castello dei Tre Cantoni, benché abbandonata nella seconda metà dell’800 dopo il trasferimento della popolazione dal colle al fondovalle, San Matteo è ancora la struttura più prominente, visibile da ogni parte della città.
A ovest il colle di Santa Maria della Croce cui corrisponde a valle la mole della chiesa di San Sebastiano, splendida nella cornice della sua cava. All’interno si trova un eccezionale presepe, opera dello scultore napoletano Pietro Padula tra il 1773 e il 1776. Anche se delle 69 statuette originali solo 29 sono sopravvissute al deterioramento e ai furti, è uno dei presepi lignei più importanti d’Italia. A pochi passi dalla chiesa c’è la bottega dove lavorava lo stagnino Antonino Manenti, detto Nino ’u lanternaru, ricordato ancora da tutta Scicli, oggi piccolo museo. Alzando lo sguardo verso San Matteo, grandi occhi punteggiano il colle sovrastante: sono le grotte del trogloditico antico insediamento rupestre delle «cento bocche di Chiafura» che, come i Sassi di Matera, è stato incredibilmente abitato fino alla metà del Novecento. A Chiafura il professor Paolo Militello ha recentemente dedicato il suo libro «Un quartiere rupestre in Sicilia fra Medioevo e età contemporanea».
A est il colle della Chiesa del Rosario, nel fondovalle Santa Maria la Nova. Da questa chiesa la domenica di Pasqua a mezzogiorno esce con l’accompagnamento di mortaretti la statua del Cristo Risorto, ’u Gioia per antonomasia, portato a spalla, e quasi lanciato, dai giovani del paese in una incontenibile, quasi orgiastica, esplosione di vitalità. Sebastiano Burgaretta, studioso di etnoantropologia, così precisa in una monografia su Scicli: «Le corse sfrenate dell’Omo vivo sono appannaggio dei giovani maschi, che si esibiscono in un rito di iniziazione pubblica che li sfianca fino a notte inoltrata».
L’architettura civile non è meno degna di nota di quella sacra. «Il Palazzo Beneventano di Scicli è uno dei più belli in Sicilia - ha scritto lo storico dell’arte Paolo Nifosì -. Con fantasiosa espressività, la decorazione scultorea e le mensole presentano figure grottesche, mostri, teste di moro e teste tigroidi che si lanciano nel vuoto con inusuale aggressività». La via Francesco Mormino Penna, con tre chiese e due palazzi nobiliari tra cui Palazzo Spadaro, sede dell’Assessorato Comunale alla Cultura, formano la cornice scenografica di parate e cerimonie.
Alla fine di maggio passa di qui la processione della Madonna delle Milizie, l’unica Vergine armata esistente al mondo. In groppa al suo bel cavallo bianco sembra quasi una reincarnazione di Bradamante, l’eroica paladina dell’opera dei pupi. Questa festa, che nel passato si svolgeva il sabato precedente la domenica delle Palme, è ora celebrata nell’ultima settimana di maggio e ai tempi di Pitrè il simulacro veniva portato fino al Santuario oggi in rovina di Donnalucata. Il momento di maggiore interesse della festa è quello della Sacra Rappresentazione che rievoca l’arrivo di pirati saraceni nel 1091: quando la nave Stambul si avvicina minacciosa alla riva, la grande folla intervenuta partecipa intensamente al pathos del pericolo che certamente dovette essere molto reale per lunghi secoli. Lo sbarco getta nello scompiglio i castellani normanni. Il conte Ruggero e il condottiero saraceno Bel-Kan hanno un celebre diverbio al termine del quale si passa infine alle vie di fatto e ha inizio il combattimento fra i due eserciti nemici. I cristiani stanno per essere sconfitti, quando interviene a loro favore a cavallo del suo destriero la Madonna delle Milizie accompagnata da un intenso fumo blu e dallo scoppio di numerosi mortaretti. La battaglia ha quindi termine con la vittoria dei cristiani e tutti si inginocchiano. In questa occasione a Scicli si mangiano le teste di turco, giganteschi bignè grandi quanto una vera testa, farciti con crema pasticcera e cioccolato: la forma imita quella di un turbante. Pitrè mette in relazione questa celebrazione alle altre due feste siciliane della spada, il Mastro di Campo di Mezzojuso e il Taratatà di Casteltermini, che egli considerava testimonianza del grande successo della tradizione cavalleresca in Sicilia.
Anche la festa di San Giuseppe a Scicli è una «cavalcata»: una dozzina di cavalli sono bardati, anzi interamente ingabbiati, testa inclusa, in vere e proprie armature di legno ricoperte da magnifiche decorazioni di violaciocche di colore bianco, giallo e viola (balicu), che raffigurano San Giuseppe con il Bambino e raccontano episodi della vita del Santo. Ogni bardatura costa al fedele che la offre in voto qualcosa come 2000 euro; i fiori sono appositamente ordinati dagli vivai della Liguria, e spediti in aereo a Catania. L’elevato costo di queste decorazioni dimostra come in tutte queste occasioni i siciliani siano disposti, nella sfrenata corsa allo sfarzo che spesso li contraddistingue, a lasciarsi prendere la mano. D’altronde non sono stati spesi interi patrimoni per quelle decorazioni in stucco e in marmi mischi che abbelliscono tante chiese siciliane? Data l’assoluta bellezza del risultato, dobbiamo perdonare ai siciliani la congenita megalomania.
Si ritiene generalmente che il nome di Scicli risalga ai Siculi che la fondarono, ma il toponimo ha almeno altre due possibili derivazioni, dalla zecca (sicla) impiantata dai Romani o da siliqua (carruba), l’albero che caratterizza tutto il territorio ibleo e che merita adeguata attenzione. Già in epoca romana si iniziò a sfruttare una particolare proprietà dei semi del carrubo: il loro peso è talmente uniforme che venivano usati come unità di misura per l’oro (da cui i nostri «carati»). Gli arabi importarono in Europa la canna da zucchero (Saccharum officinarium) nel IX secolo: fino ad allora era stato il miele il dolcificante più comune. In alternativa i Romani adoperavano lo sciroppo di carruba, ancora oggi prodotto artigianalmente nella regione iblea; gli anziani ricordano che un tempo era usato come rimedio per la diarrea e per confortare chi si fosse preso uno spavento. In inglese e in tedesco le carrube sono chiamate pane di San Giovanni, perché in un passo della Bibbia si racconta che il Santo trovandosi nel deserto riuscisse a sopravvivere nutrendosi di locuste che per molti sarebbero in realtà carrube.
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