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Omicidio Loris, il Gup: "Madre spregiudicata e calunniosa"

RAGUSA. «Lucida assassina e mendace». Si rincorrono le 'bugie' di Veronica Panarello anche nelle motivazioni della sentenza con cui il Gup di Ragusa, Andrea Reale, il 17 ottobre 2016, l'ha condanna a 30 anni di reclusione, col rito abbreviato. La donna è considerata colpevole, «al di là di ogni ragionevole dubbio», dell'uccisione del figlio Loris, che avrebbe strangolato con una fascetta di plastica, il 29 novembre del 2014, nella loro casa di Santa Croce Camerina, e dell'occultamento del cadavere.

Avrebbe fatto tutto da sola, osserva il Gup, coinvolgendo il suocero, estraneo ai fatti, con una «devastante chiamata in correità» per i trascorsi familiari e per «fornire un movente inconfessabile e gravissimo», ma falso.

Il Gup, nelle 190 pagine delle motivazioni, ricostruisce in maniera dettagliata le fasi dell'inchiesta, confermando le ricostruzioni della Procura, basata su indagini di polizia di Stato, squadra mobile e carabinieri, e sulle motivazioni di Gip di Ragusa, Tribunale del riesame di Catania e Cassazione.

«Non possono non impressionare - scrive il Gup - la rapidità di esecuzione del soffocamento, la fredda e lucida risoluzione nel dissimulare una violenza sessuale subita da Loris, il cinismo con la quale decide di liberarsi del corpo gettandolo dentro il canalone come se fosse uno dei tanti sacchi di spazzatura». E «con l'inaudita indifferenza e calcolata velleità di costituirsi un alibi» si reca a un corso di cucina come se «la soppressione di Loris fosse stata un'ordinaria faccenda domestica da sbrigare per recarsi indisturbata a svagarsi».

È vero, riconosce Gup, il processo è indiziario, ma «la mole, la gravità, la precisione e la concordanza delle prove sono talmente eloquenti e significative» che permettono di dire che è stata lei a commettere «senza pietà e pentimento il più 'innaturale' dei crimini». Un omicidio senza movente, irrilevante nella condanna, ma senza premeditazione: «un dolo d'impeto, nato dal rifiuto del bambino di andare a scuola quella mattina e dal diverbio nato con la madre, il cui contenuto è conosciuto soltanto all'imputata».

Il Gup scava nei trascorsi familiari della donna e nella sua fragilità psicologica, che la rende comunque in grado di intendere e volere. È nella perizia psichiatrica che il giudice cerca una chiave lettura. Per gli esperti la donna ha «una personalità in conflitto con sé e con i propri familiari, immatura sotto il profilo genitoriale, menzognera e fortemente istrionica, egocentrica, manipolatrice, desiderosa di catturare le attenzioni di chi gli sta vicino e di porsi al centro di tutto ciò che la circonda a causa anche delle carenze affettive delle quali aveva sicuramente sofferto da adolescente». In questo quadro si innescherebbe la 'sindrome di Medea', che gli esperti chiamano «figlicido motivato da rivalsa». Secondo il Gup la donna avrebbe «trasferito su Loris e nel rapporto con lui le frustrazioni e l'odio patito nella sua famiglia d'origine ed ha riversato le incomprensioni avute con le proprie inconsistenti figure genitoriali».

Il simbolo della vita si sarebbe trasformato in un «crescendo di inesorabile forza distruttiva, simbolo di oppressione e di morte, di distruzione di parte di sé, del proprio sangue, e, in conclusione, di sé stessa e del suo ruolo di madre e di moglie».

E in questo turbinio di sentimenti devastanti avrebbe cercato di coinvolgere anche il suocero, Andrea Stival. La donna, rileva il Gup, ha «indicato un movente turpe, gravissimo, sconvolgente», nella minaccia del figlio Loris di rivelare al padre la presunta relazione della madre con il suocero, che avrebbe ucciso il nipote per 'zittirlo'. Ma, osserva il giudice, «non è provata la relazione tra i due». Ma non solo: la presenza in casa dell'uomo al momento del delitto è «inverosimile e smentita dai tempi di percorrenza».

Inoltre Andrea Stival ha «un credibile e forte alibi» confermato da testimoni e dalla localizzazione di un cellulare. L'ennesima 'bugia', per il Gup, di Veronica. Ma non per il legale della donna. L'avvocato Francesco Villardita che, ribadisce, «restiamo fermi nella nostre posizioni». E annuncia: «presenteremo impugnazione dopo avere studiato con attenzione le 190 pagine, che a una prima lettura non ci convincono sul piano della crimino-dinamica, dell'assenza di movente e dell'elemento soggettivo».

 

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